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Quel nocciolo bianco dell’anima…

Quel nocciolo bianco dell’anima…

È il nocciolo bianco dell’anima. Un silenzio. Uno stare soli con sé. Lì in mezzo o in un punto del cosmo trascinare le nostre chiassose storie, il rumore che alziamo con i nostri passi. Gettare tutto, come in un gioco con i dadi, x fare di quel groviglio l’impossibile da distruggere: un ossicino minuscolo che resiste. Un punto che si chiama luce. Puoi trovarlo anche fuori da te. In una persona in cui brilli la solitudine. Questo l’incipit di un pensiero, a proposito di una zona incontaminata dentro noi stessi o visto riflesso in altri, un pensiero che torna di tanto in tanto e che mi offre l’occasione per una riflessione più ampia sulla solitudine desiderata o imposta dalle circostanze.

Quante di noi se ne stanno sole, per volontà, ricerca, o proprio perché vivono da sempre un’esistenza fatta di monologhi, dialoghi tra sordi, con uomini che, appena proferisci parola, ti liquidano, con una carezza veloce se va bene. Questa mattina ho ripensato a un odore di vento e di iodio, alle passeggiate settembrine e ottobrine lungo il litorale di una località del veneziano, con un’amica, la mia amica di “respiro di mare”, di discorsi alla ricerca di noi stesse.

Perché sapersi leggere, capire quando le cose non vanno, interpretare gli umori e gli atteggiamenti di chi ci vive accanto, intuirne i segreti, necessita di un vero ascolto dell’altro.

Il tempo non è mai quello giusto per fermarsi e riflettere. Bisogna volerlo.

Quel momento giusto potrebbe essere di mattina al risveglio in un giardino pensile, tra piante e libri, durante una camminata solitaria, l’ascolto di una canzone…

Rifletto sul senso di una ricerca di un Eden che potremmo, a volte, volerci costruire noi donne.

Forse questo atto di volontà significa volere riprendere noi stesse da dove ci eravamo lasciate, quando credevamo di potere tessere rapporti alla pari con l’altro?

Qualcosa si rompe, per fortuna non sempre, quando si impara a prendere coscienza di quello che si è, costantemente alle prese con ciò che comporta la dialettica esistenziale; di noi essenza, dotata di un tratto distintivo preciso, impastata di specifiche diversità e originalità  che vanno oltre il ruolo di madre, moglie, lavoratrice, pensionata…

Ci si accorge di non essere più disposte a dare agli altri l’immagine primitiva, che non è più la sola a corrispondere negli anni all’unica che si credeva assoluta, perché nel frattempo le altre “te stesse” sono emerse e non ammettono di essere invisibili.

E quando si arriva ad avere la percezione di questa natura specifica di alterità e unicità, può accadere che si rompa qualcosa perfino negli ambienti in cui ci si credeva salve. Di colpo, ecco, prima uno scricchiolio, poi un boato, una deflagrazione, un vero movimento tellurico i cui sintomi già si sarebbero potuti cogliere da qualche episodio di intolleranza verso la donna che si impegna ad annunciarsi nuova nata.

Esiste una violenza sottile, quasi impercettibile o impercepibile . Nei rapporti di lavoro, in famiglia…

La parola della donna, non quella gridata, ma quella ferma e pacata, spesso viene messa in discussione con atteggiamenti di sufficienza o con uno smorzare improvviso del discorso.

Si tratta di una questione di educazione? Culturale?

Eppure siamo noi stesse che partoriamo, e prima ancora parliamo ai nostri figli quando il viaggio verso la terra incomincia da più lontano.

Con quali parole cresciamo ed educhiamo all’ attenzione, alla considerazione, al rispetto, all’accettazione della diversità, a prescindere?

Marina Agostinacchio

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