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Fragilità o resilienza… forse la ricerca di una parola che metta d’accordo tutti

Di Marina Agostinacchio

Leggo sulla rivista Odysseo , la Testata settimanale online di Paolo Farina, un interessante articolo di Michela Conte del 21 Novembre scorso. Porta il titolo: Fragile a chi?
A tal proposito, vorrei portare un personale contributo, ampliando e riflettendo oltre il già detto.
Una donna incinta, emigranti da salvare; questi alcuni tra gli esempi citati nell’articolo.
Proseguendo col ragionamento, potrei aggiungere dai sessantenni in su, i bambini “diversamente abili”, le donne in genere, i malati mentali, i ricoverati in ospedale, i reclusi…
Ma ognuno porta in sé un proprio grado di fragilità; “ci sono diverse sfumature di fragilità”, scrive l’autrice del testo.
Ho incontrato, alcuni anni fa, carcerati (tre primavere con un percorso didattico di scrittura nel carcere penale della mia città); e sempre per attività di scrittura, bambini e ragazzi svantaggiati, donne ammalate di tumore, bambini della pediatria con diverse patologie. Potrei dire di ognuno di quanta bellezza, energia, consapevole ed inconsapevole, desiderio di vita, risorse, resilienza, fossero dotati.
Per tali motivi, bisogna stare attenti al sentimento che ci anima nel porci di fronte ai “definiti” fragili.
Della parola fragile il vocabolario Treccani offre queste definizioni:
Si dice FRAGILE ciò che si rompe facilmente, specialmente quando viene urtato (il vetro è f.; il f. stelo d’un fiore; le ossa dei vecchi sono fragili). 2. In senso figurato, e riferito a persona, fragile indica chi oppone poca resistenza al dolore fisico, e dunque è delicato o gracile (salute f.; costituzione f.), 3. ma anche chi fatica a far fronte alla sofferenza morale, e quindi è emotivamente debole (in questo periodo è molto f. e piange con facilità) 4. oppure chi non sa resistere alle tentazioni (la f. natura umana).
Prendendo spunto dalla lettura dell’articolista, vorrei allargare il discorso sulla fragilità in oggetto. A quanto posto in rilievo nel pezzo giornalistico, sarebbe poco corretto parlare di fragilità in senso assoluto, dal momento che bisognerebbe sempre valutare se una persona è davvero fragile a tutto tondo, perché, e cito le parole lette, la Conte si chiede “che senso ha continuare, ancora, a ragionare per opposti (fragili e forti) e guardare una barca di migranti stabilendo, a priori, che alcuni sono da soccorrere, mentre altri possono resistere…C’è di mezzo una cultura becera, impoverita dagli stereotipi”.
Su questo ultimo punto sono d’accordo, anche se credo che “quelli altri” che avrebbero potuto resistere siano stati ritenuti tali ( il fatto: il divieto due mesi fa circa dell’attracco in Italia a due navi delle ong, con a bordo oltre 300 migranti salvati tra la Libia e Malta), per un gioco di pseudo-destrezza politica, intesa come rimedio a un errore di non intervento immediato .
Per il ministro dell’Interno, infatti, le imbarcazioni sarebbero state “fuorilegge e non in linea con ‘lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale’”.
Ma riparto dalla prima considerazione della Conte sulle donne incinte ritenute a sproposito “fragili”.
Vero è che una donna che attende un bimbo potrebbe sentirsi incredibilmente piena di energie; cito da “Odysseo”: ”questa condizione di fragilità ha un’altra faccia”; inoltre penso io pure che bisognerebbe sapersi guardare attorno per conoscere e riconoscere nel vicino di casa, spesso per noi inesistente, il vero volto della fragilità, prima ancora di lanciarsi in opinioni astratte di priorità a situazioni che sembrano più urgenti.
A ben pensarci, però, poiché appunto di fragilità ce ne sono tante, di certo non possiamo metterle su un bilancino, stilando graduatorie.
Credo che l’uomo abbia in sé bisogno di argini mentali su cui camminare, abbia bisogno di chi stabilisca delle priorità, abbia bisogno di classificare, distinguere, ordinare il pensiero, secondo classi e categorie.
Di fronte alle emergenze, o a evidenti metamorfosi del corpo, o allo svantaggio fisico e mentale, a uno stato di inferiorità di una persona, nei confronti dei propri simili, come si può parlare di non rilevanze perché, secondo la scrittrice, troppo spesso ingabbiate in semplici stereotipi?
La mamma che attende un bimbo, lo si voglia o no, per quanto stato di benessere mentale si trovi a vivere, non può non essere considerata degna di attenzione e di premura particolare proprio in forza del fatto che il suo corpo è teso e proteso alla vita che si sta formando nel suo grembo. Per tale condizione, deve rientrare nella categoria della fragilità, anche se si trova “in coda in un ufficio al posto del marito”.
Mi sembra anche che quando nell’articolo viene scritto che le donne dimostrerebbero la propria inferiorità in determinate situazioni “Così, a una quasi-mamma il commesso del negozio di passeggini raccomanda un prodotto leggero e maneggevole, a prova della sua forza inferiore”… , si torni a percorrere il sentiero dello stereotipo della donna che deve ingaggiare a tutti i costi la lotta del debole con il forte.
Secondo il mio punto di vista, l’articolista mette troppa carne al fuoco, dilatando il discorso alla questione femminile, alla sudditanza della donna all’uomo, problema ormai troppo spesso cavalcato dalla cronaca. Come nel caso della violenza, “cibo” per le trasmissioni televisive del pomeriggio e della cronaca in genere.
Circa questo punto, sono venuta a conoscenza della tesi di laurea, in via di preparazione, di una eccellente studentessa di Diritto che affronta il problema della violenza in genere e soprattutto quella, più sottesa e silenziata, femminile sul maschile. E chi vi scrive è senza ombra di dubbio, per coloro che la conoscono, una sostenitrice dei diritti delle donne.
Anche la fragilità oncologica, di fatto, trova in sé sfumature a seconda del grado di malattia, dello stato psicologico del malato, di chi sta attraversando o si trovi in uno stato di superamento (che poi non è mai né assoluto) del trauma da tumore.
Alcune persone chiedono di non essere guardate o ritenute diverse, chiedono una legge di “oblio oncologico” perché spesso, soprattutto per la prosecuzione o l’ingresso a certi lavori, la persona viene giudicata non idonea.
Anche in questo caso, chi si approccia a un’umanità sofferente, e in senso lato, dovrebbe sì mutare atteggiamento, sapere interloquire e superare un disagio, l’atteggiamento di “pretesa” lavorativa, considerando il fatto che la “fragilità” un malato di qualsiasi patologia, comune o rara, se la porta già come pena costante, avvertendo in sé una linea di demarcazione che gli dice che non sarai più come prima.
Per fare sentire questi malati come risorsa in un ambiente lavorativo, si potrebbe davvero cogliere la condizione di fragilità quale preziosa opportunità, operando come i Giapponesi che mettono in evidenza le fratture dei vasi rotti, attraverso la tecnica del Kintsugi, riparando “la ferita” con un filo d’oro; Kintsugi, metafora della vita.
I luoghi comuni, come dice la Conte, esistono e vanno superati; non credo però dovrebbero impressionarci più di tanto.
Possiamo andare oltre, vivendo con saggezza le nostre scelte, stando attenti a non cadere nella trappola dell’opposizione forzata di fronte a un’evidenza che di fatto dovrebbe farci agire seguendo il buon senso e avendo attenzione anche per chi – ai tanti- non “fa rumore” e vive da invisibile il proprio stato di indigenza fisica o spirituale.
Dunque, quanto scritto, forse ci dovrebbe indurre a trovare un’altra parola per definire chi vive la condizione di vulnerabilità latente o esplicita? Chissà… una parola che metta d’accordo tutti.

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