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I racconti di Paola Medici: Coming out

Racconto di Paola Medici

Cosa si prova quando siamo sorpresi da un terremoto? Disperarsi, rimboccarsi le maniche, ricominciare…
E poi sapersi ascoltare, accettarsi come si è, andare oltre.
Il testo che state per leggere ha in sé la forza esplosiva di una mina. Ci mette nelle condizione di “sentirci al posto di…” E soprattutto ci induce a riflettere e guardarci intorno.

Sembra una storia di rivalsa, di autoaffermazione, di presa coscienza di sé.
E forse un po’ lo è, a essere onesti, ma i veri protagonisti sono altri. Sono creature silenziose, si nascondono nell’ombra, non le vedi finché non colpiscono e anche allora, quando il dolore ti contrae il viso e di scatto ti volti a fronteggiarle, anche allora non è che le vedi molto bene.

Sembra una storia con un lieto fine, una storia che si scalda al sole dopo aver attraversato un tunnel freddo e scuro, una storia che ce l’ha fatta. Ma la verità è che non ce la fai mai. Ogni giorno il tunnel ed il sole sono entrambi là: il tunnel non finisce mai e il sole ti consola sempre. Sta a te scegliere di cosa parlare.

Sembra…

Ma chi conosce davvero quello la superficie cela? Probabilmente, non di tutto si può parlare.

Tremava la terra. La sentivo, tremava. Non sempre, così sarebbe stato troppo facile capire cosa stava succedendo, tremava solo a volte. Ammetto di averle ignorate, le scosse. Le attribuivo a qualche evento fuori dal mio controllo e quindi perché scomodarsi? Ma non era così.

Nessuno se ne accorse, ma quel giorno crollò tutto.
La vita continuava imperturbata per la sua strada e io vedevo solo macerie.

Non lo so cosa si veda da fuori quando una persona ad un certo punto decide di cambiare, di cambiare tutto.

Ma posso dirvi cosa si vede da dentro, nel caso siate stati così fortunati o sfortunati da non dover mai cambiare. Sì, “dovere”, in realtà, è la parola giusta. Perché dopo che sopravvivi ad un terremoto non puoi più scegliere. Se sopravvivi, allora te lo devi.

Ti svegli dopo il terremoto e regna la devastazione. Per raggiungere il bagno sposti muri e calcinacci e ferri piegati. Ti tagli le mani e i piedi, scavalchi infissi demoliti e tubi che perdono. Anche andare al lavoro diventa un’impresa: guidi evitando i crateri per terra, devi di fronte ai cavalcavia crollati, eviti gli argini inondati di acqua e fango. Tutto ciò che prima risultava automatico diventa una sfida. Scavalchi i sogni distrutti e ricordi spezzati sulla via del ritorno, pagine di libri impolverati compaiono qua e là, confusi coi progetti e i desideri.

Tutto, tutto è crollato nella tua mente.

Non lo so cosa si vide da fuori. Ma dentro non c’era più niente.

Avevo costruito senza fondamenta. Avevo calcolato, impostato, imbiancato e arredato secondo canoni conosciuti, ahimè, secondo canoni imparati. E tutto è crollato. Riuscite a capire il disappunto? Perché il mio mondo è crollato mentre il vostro no? Ho fatto come avete fatto voi, e non ha funzionato. Di chi ti fidi quando non ti fidi più di nessuno?

Ero in piedi e il mio mondo giaceva distrutto al suolo. Ero in piedi in un deserto di macerie. Trent’anni di storia e di fatica tutti andati, potevo andare anch’io. Sì, potevo sdraiarmi, e andare anch’io. Nessuno se ne sarebbe accorto, nessuno mi avrebbe chiesto niente. Ho scoperto che basta un sorriso. Vi avrei guardati dal basso facendovi credere di essere alla vostra altezza, facendovi credere di essere viva.

Ma se sopravvivi ad un terremoto non hai più scelta. Te lo devi.

Qualcuno lo ha chiamato coraggio, per me fu disperazione, che, se vogliamo, non è altro che coraggio andato a male. E quando sei all’angolo non hai molta scelta, la direzione da prendere è solo una, non ti puoi sbagliare. La disperazione ha questo di consolatorio, quando sei disperato non ti puoi sbagliare: devi portarti in salvo. Punto.

E così ti tocca iniziare: in un angolo raccogli gli infissi, lì infondo accatasti i mattoni e il cemento, affianco ci metti tutte le frasi di circostanza, a lato le tubature, di fronte ci piazzi i sogni degli altri, lì c’è il mucchio delle piastrelle, proprio là, vicino ai luoghi comuni. A sinistra, in ordine di importanza: i mobili, i frammenti dei sanitari, i consigli dei codardi, gli elettrodomestici fulminati, la vanità consumistica, l’approvazione.

Perfetto. Così, domani mattina, per andare al bagno ci metti meno.

Sei sciolta. Sei un cane sciolto. Svincolato dai fili logici che tengono insieme la società. Ma ci hai vissuto trent’anni, o quasi, e i percorsi te li ricordi ancora molto bene. Nessuno se ne accorge e chi se ne accorge, non so perché, non vuole saperne. In effetti, i profughi ci hanno sempre fatto paura.

Ma tu sei sopravvissuta, e hai messo in ordine, e hai chiamato quelli degli sgomberi, ci vuole un po’ di pazienza. Ti mancherà tutta questa immondizia cerebrale, in fin dei conti è stata casa tua per davvero un sacco di tempo. Osservi le macerie, a malincuore, e te ne liberi.
Ora il deserto è vuoto, ora il deserto è veramente deserto. Ora si che fa paura.

Dove si va adesso?

Smetti di guardare gli altri, anche se la tentazione è forte. Forse copiavi da quelli sbagliati? Ma non c’è un modo di copiare giusto, non ingannarti di nuovo. Ora si tratta di coraggio. Il coraggio di sbagliare, di fare brutta figura, coraggio di essere lo scemo del villaggio, la strana, la strega, la fata, il drago, il cattivo, il buono o l’aiutante. Il coraggio di tutto. Un’epica indigestione di tutto. Oggi sei principessa, domani cecchino, oggi consolatrice, domani boia.

Rinneghi il conosciuto e lo interroghi finché non si arrende e torna sconosciuto. Allora lo plasmi sulla tua persona perché il contrario non può più funzionare. Lo plasmi e tieni quello che ti serve, gli avanzi li lasci lì, qualcuno poi ne parlerà. E così viaggi nel deserto, daccapo, come un neonato, a muovere i primi passi. E cadi, cadi tante volte perché non hai ancora capito cos’è che ti tiene veramente in piedi. A volte lo intuisci, a volte lo scopri per sbaglio, a volte qualcuno te lo suggerisce. E allora cominciano a fiorire nuove immagini in questo deserto, il nulla non è più nulla ma inizia a nascondere qualcosa. E il viaggio si fa intrigante. Un nuovo sapore sulla lingua ti fa venire fame.

Non so cosa si veda da fuori quando una persona ricomincia a camminare.

Ma da dentro, continua a fare paura.

Hai messo in dubbio tutto. Hai mollato la presa. Sei sola. Non sei più disposto a tornare dov’eri, a pronunciare le parole che dicevi, a indossare i luoghi che frequentavi, a cullarti nella sicurezza del sentire collettivo. Certo che sei più forte, solo chi è forte può mettere in discussione se stessa, ma non confondete la capacità col piacere, la scelta con la condanna. Certo che non torneresti indietro, ma certo, eppure torneresti per portare qualcuno con te. Ma questo gioco della sopravvivenza non funziona così.

Non arrivi mai da nessuna parte. Non sei mai salvo dopo che sopravvivi ad un terremoto. Siete salvi voi, non noi. Non c’è un traguardo, non c’è l’ultimo miglio, l’ultimo sforzo è tale e quale al primo. Se volete sapere come va’ dovete chiederlo ogni cinque minuti. E se può rassicurarvi, calcolatevela voi la media.

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