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I racconti di Paola Medici

Paola Medici: la giornata del racconto
Breve introduzione di Marina Agostinacchio

Paola Medici ci stupisce ogni volta che la leggiamo per la capacità di creare narrazioni con lo spirito di osservazione che la contraddistingue, volto al mondo della natura.
Paola è capace di leggerezza e profondità di senso, nascoste in ogni essere umano e difficilmente fatte fluire per chissà quale arcana regola di vita che, crescendo, ci imponiamo.
Questa di oggi è una storia che tiene il lettore col respiro sospeso fino alla fine, allorché viene svelato il meccanismo che tiene in equilibrio il mondo se solo sappiamo tenere conto delle regole del rispetto e dell’amore per tutte le creature.

Una storiella
C’era una volta… mi sembra che cominciasse così, o almeno così iniziano molte storie. Questa me l’hanno raccontata tanto tempo fa, non ricordo il senso, ma mi era piaciuta. Se avete bisogno di un senso potete metterci quello che volete alla fine. Io ve la racconto…

C’erano una volta due bambine. Erano due sorelle che si volevano molto bene, non ricordo i loro nomi, ma erano piuttosto diverse. Facevano quelle cose che fanno di solito i bambini, inventavano, litigavano, discutevano, gareggiavano, sempre insieme.
Una delle due decise un giorno di creare il suo giardino personale. Era molto intraprendente, bisogna dirlo. Raccolse legni e sassi e recintò un’area del piazzale. Con molta cura lo cosparse di terra, foglie secche ed erba strappata. Spezzò qualche ramo da un albero e lo piantò dritto, a simulare un piccolo boschetto. Trovò un pezzo di plastica, lo interrò e con la prima pioggia ecco fatto anche un laghetto. L’altra bambina la guardava ammirata. Sì, erano proprio diverse: una vivace, indaffarata, manuale e creativa, l’altra più mite, introspettiva e silenziosa. Il giardino migliorava di giorno in giorno: dal laghetto sfociava un piccolo fossato che faceva il giro della parete di confinamento, l’erbetta strappata aveva iniziato a mettere radici, il boschetto, man mano che le foglie ingiallivano e cadevano, veniva prontamente sostituito con nuovi rami. Mancava ancora qualcosa però, mancavano degli abitanti. Cosa farsene di tutta questa bellezza se nessuno la abitava? La bambina allora partì alla ricerca di nuovi protagonisti e quando fece ritorno aveva le mani ricolme di formiche. Le mise all’interno della sua creazione e queste si ambientarono iniziando a costruire a loro volta cose nuove.

Ogni giorno la bambina visitava la sua città e monitorava attenta i cambiamenti che avvenivano. Era un’attività molto dispendiosa, ma era anche motivo di gran vanto. Aveva infatti stabilito delle regole per i suoi piccoli abitanti, regole che si premuniva personalmente di far rispettare. Diverse file di sassi interrati stabilivano dove le formiche potevano scavare le tane, l’accesso al laghetto avveniva tramite uno stelo su cui le formiche camminavano in fila per raggiungere il pelo dell’acqua, briciole di pane venivano sparpagliate un paio di volte alla settimana. Nonostante questo, per poter garantire la prosperità del giardino, occorreva anche intervenire attivamente. Capitava infatti che le formiche costruissero tane troppo profonde, e si nascondessero dove la bambina non poteva più vederle. In quel caso bisognava infilare le dita nella terra e smuoverla fino a quando non uscivano tutte alla luce. Oppure succedeva che le formiche si spingessero fino ai confini del giardino, allora andavano prontamente respinte indietro verso il centro. Gelosa e fiera la bambina agiva come un piccolo dio capriccioso sulla vita delle formiche, regolando le loro attività e la disponibilità di acqua e cibo.

L’altra bambina faticava a comprendere l’entusiasmo dell’amica. Secondo lei le formiche non avevano una gran voglia di starsene là, a quelle condizioni così severe e senza dubbio limitate. Le faceva tenerezza vederle ammassate e rinchiuse come in una prigione. Provò un giorno a far ragionare l’amica, dicendole che erano troppe, avevano bisogno di più cibo, dovevano poter scegliere dove e come scavare le tane, senza che queste venissero ogni volta distrutte. Ma niente da fare, la bambina creatrice non voleva sentire ragioni. Quello era il suo giardino e lo amministrava come voleva lei. Sta di fatto che un giorno, dopo l’ennesimo intervento poco ortodosso da parte della bambina-creatrice, l’altra non riuscì a resistere. Vide una formichina claudicante provare ad emergere da un sasso rovesciato ed ebbe un moto di compassione. Per la prima volta ebbe l’ardire di sporsi entro il confine del giardino per aiutare la formica in difficoltà. Non appena l’amica la vide, la tirò per il codino facendola cadere all’indietro e la spinse via urlandole una montagna di cattiverie. Quel giorno scoppiò una lite piuttosto seria e le due bambine smisero di parlarsi.

Avvilita e vagamente scossa, la bimba mite e silenziosa rimase mite e silenziosa sul limite del giardino ad osservare la costante fatica che le formiche dovevano fare per sopportare la vita ardua che era toccata loro. Le vedeva sempre alla ricerca di nuovo cibo, piovuto chissà dove, alcune erano in costante costruzione di nuove tane, le esploratrici venivano ripetutamente catapultate verso il centro. Alcune stavano bene, ma altre soffrivano, si poteva vedere chiaramente. Erano più lente, non crescevano, anziché collaborare come una famiglia lottavano tra loro per il cibo. Seduta in disparte, decise che era arrivato il momento di rischiare ancora ma, questa volta, in modo diverso. Quella notte aspettò che la sua amica si addormentasse, dormiva di un sonno profondo visto tutto il lavoro che faceva durante il giorno, e senza fare rumore uscì sul piazzale. Stando attenta a non spostare nulla, a non lasciare la benché minima traccia, entrò nel giardino e raccolse una manciata di formiche. Strette tra le sue mani delicate e sicure le trasportò di corsa molto lontano e le liberò su un prato, un vero prato, distante da quella piccola riproduzione appena abbozzata. Rientrò a letto incredibilmente sollevata e felice. Il mattino seguente, però, si svegliò col cuore in gola al pensiero della reazione che avrebbe avuto l’amica quando si sarebbe accorta di quello che aveva fatto.

Ma l’altra bambina non si scompose più di tanto. Forse aveva previsto che di notte, senza la sua sorveglianza, le formiche potessero scappare. Rinforzò quindi il muretto di cinta, allargò il fossato, si premurò che nessuno dei rametti verticali sporgesse fuori dal confine. Dopodiché catturò altre formiche e le usò per rimpiazzare quelle perdute. Pericolo scampato, la bambina silenziosa sorrise tra sé e sé, non era stata scoperta. La notte successiva allora, ripeté l’operazione: appena l’amica si addormentò, uscì in silenzio, raccolse altre formiche, non troppe, giusto una decina, e le portò dove aveva liberato le altre la notte precedente. Forse era un’attenzione eccessiva, ma nel suo cuore le formiche si conoscevano e, proprio come le persone, potevano soffrire la mancanza delle compagne. Certo, aveva pietà di quelle che lasciava nel giardinetto, se le immaginava tristi mentre cercavano le formiche scomparse. Ma è solo per poco, si ripeteva, solo per poco tempo avrebbero sentito la mancanza, la libertà sarebbe presto arrivata per tutte. Aveva deciso che era il caso di salvare prima di tutte quelle malmesse, zoppe o malate. Poi ne prendeva alcune che stavano bene, per non destare sospetti, e infine alcune delle nuove arrivate. Pensava, in cuor suo, che le nuove arrivate avessero memoria della vita prima di essere catturate, e che quindi sarebbero state ben contente di tornarci presto.

Così andò avanti per molto tempo questo strano equilibrio. Una bambina catturava le formiche e le faceva vivere secondo le sue regole, mentre l’altra, di nascosto, restituiva loro la libertà perduta. Ognuna agiva secondo… Ah, sì! Mi sono venuti in mente i nomi delle bambine! Che sciocca.

Erano la Vita e la Morte.

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