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Diritti e società: “L’ora di Alice”

Diritti e Società
Desidero presentarvi oggi L’ora di Alice,Una storia disambientata.

“L’ora di Alice”è il progetto che Nerina Garofalo ha curato e realizzato con Rosamaria Caputi, Mariagrazia D’Avino, Barbara Giuliani, Silvia Longo e Silvia Molesini
Ma quale è l’ora di Alice? E’ “quella nella quale ci accorgiamo di provare un sentimento che ha a che fare con lo smarrimento, ricercarne le tracce in parole e immagini può costituire un sentiero che ci accompagni senza costringerci”. Le storie delle donne che incontreremo sono arricchite di immagini fotografiche scattate e commentate da Nerina Garofalo.
Si tratta di un sito costruito e arricchito da
Rosamaria Caputi, catanese, attrice di prosa, diplomata alla Scuola “U. Spadaro” del Teatro Stabile di Catania. Si occupa di drammaturgia e poesia.

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Maria Grazia D’Avino, napoletana. Psicologa, esperta in psicodiagnostica e scrittura autobiografica. Coordina una comunità per pazienti psichiatrici e con doppia diagnosi.
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Nerina Garofalo , cosentina. Narrative thinker, fotografa e personal coach, si occupa di comunicazione nelle organizzazioni, in rete, e nei percorsi di sviluppo personale e lavorativo.
Qui troverete racconti vissuti e testi poetici riferiti a quanto è ruotato e ruota intorno a un “sentire” emozioni, elaborare riflessioni, provare a toccare la vita, fermandola tra un fare quotidiano di cui si sezionano scene, si rallenta il passo, cosicché ogni forma, cose, oggetti, ogni tensione del corpo, diventa per lo sguardo di chi legge una sequenza di metonimie :
Parleremo di tutto (Barbara)
“Parleremo di tutto, tranne che
dei numeri decimali.
Siediti,
sistemo le tende,
spengo la luce,
trattengo
lo spigolo di luce nel bicchiere sul tavolo.
Quanti secondi abbiamo prima di tornare a esplodere…”
L’esperienza pandemica, che dal 2019 ha trasformato le nostre vite, ha generato fiumi di pagine. Alcune autorevoli e controverse (penso a Quando la casa brucia, di Giorgio Agamben), altre di taglio autobiografico e intimista (ne è un esempio Nel contagio, di Paolo Giordano). Ne cito solo due fra le tantissime. In modo più orizzontale e trasversale sono fioriti blog, progetti fotografici, iniziative di mutuo soccorso. C’è stata una trasformazione nei processi di servizio e di lavoro, nelle forme del commercio online e di prossimità, abbiamo assistito a sperimentazioni metodologiche, esperienze di sopravvivenza urbana e periferica, trasformazioni profonde nel sistema di assistenza sanitaria. In tutto questo, dopo due esperienze di lockdown, due riaperture, tre cicli vaccinali e una recrudescenza prima e una sperata curva in discesa dei contagi omicron oggi, il dato che emerge racconta fondamentalmente una precisa emozione sociale che viene spesso definita con la parola smarrimento.
Ora, non solo ci sentiamo smarriti, ma anche abbiamo smarrito. Ma è, forse, oggi, il tempo esatto per aprirci allo stupore, combattendo con forza ed insistenza il demone affamato dell’eterno ritorno dell’uguale. L’ora di Alice nasce, nel luglio del 2021, dalla necessità di confrontarsi su tutto questo.
Dal desiderio di ritrovare e di narrare questo smarrimento con parole femminili, ovvero capaci di una visione olistica e ad un tempo relazionale e associativa, e di sapere con certezza che nelle voci cercate, quelle a cui ho proposto di lavorare insieme a L’ora di Alice, sia come sia, c’è sempre spazio per un’ombra, almeno un’ombra di stupore. Per i lavori che facciamo, per le donne che siamo.

Quando mi sono accorta che la lunga pandemia, dentro di me, aveva reso spessa la parete che separa la persona dalle sue parole, ho avuto la certezza che queste donne, queste cinque donne con le quali da anni condivido in rete l’esperienza del dire, del far verso, la ricerca, la scoperta, e la composizione in cose che si scrivono da stanza a stanza, da realtà a realtà, ho scelto di cercarle per chieder loro se anche lì, nel quieto delle loro stanze, nei luoghi esterni del loro vivere, nel loro spazio relazionale ed emozionale, fosse passata Alice. E, in qualche modo potesse Alice orare per noi.
Partire è stato semplice, c’è stata la condivisone di una traccia: la metafora di Alice come mondo sovvertito, come visione ed intuizione di essere state e di essere in un non luogo capace di proporre l’estremo della sensazione a chi è nato nel nostro ‘900, dove alla guerra che ha segnato le vite dei nostri genitori si è andata sostituendo una catastrofe di ordine mondiale senza bombe, senza nemici dichiarati, senza obiettivi noti. Catastrofe nella quale, noi tutte e tutti noi abbiamo dovuto imparare una perdita. Perdita di certezze che pareva inammissibile nel quadro delle sfide sconfinanti l’umana misura che la storia ci ha abituati ad annusare. La guarigione, la non morte delle cellule, la nascita fuori misura del corpo, la ricerca continua di un sanare per durare.
Improvvisamente, le cose cominciavano a durare la lunghezza di un saluto, di un passamano percorso, di un abbraccio. La trasformazione dei simboli ha reso nudo un corpo che era oramai disabituato a perdere, o almeno ad accettare la stessa idea di perdita, e sono sorti nuovi simboli della trasformazione, primo fra tutti il cerchio che disegna un corpo che si separa da ogni corpo, da ogni spazio.
Fotografare, nel tempo della pandemia, è divenuto per me il luogo principe da cui osservare per com-prendere quello che non si può comprendere.
La sensazione dell’impronta cinestesica lasciata dallo sguardo nell’atto di scattare, e poi ripresa quando si passa allo sviluppo (in camera analogica come anche in digitale), sopperiva per me a quell’atroce assenza dei corpi, dei respiri, dei fiati, dei sapori dei corpi ai quali è quasi impossibile sottrarsi senza perire, senza soffrire.

Il vietnamita Ocean Vuong ha scritto che “L’occhio umano è l’invenzione più solitaria di Dio” ed è nel vero scrivendo. Eppure, in pandemia, quest’atto solitario, guardare, ha costituito per me la protesi incorporea capace di permettermi di essere col corpo accanto ai corpi, dentro ai corpi. E conservare la traccia duratura del contatto.
Un po’ è così che si fotografa sempre, sentendo quel che passa dal corpo delle cose, dal corpo umano, e dal corpo sociale, dalle città e dagli spazi, attraverso la cattura soggettiva ed abusante dello sguardo.
Lo sguardo prende, rimodella in prospettiva, disvela in sviluppo l’impronta di luce del contatto. È un atto erotico e maieutico, e infine, anche un abusante appropriazione di senso. E dunque, orribilmente, può diventare violazione. La grazia del fotografo è stare in equilibrio in tutto questo, un ritrattista non dovrebbe mai sentire ciò che il corpo altro non vuol dire. Non sempre ci si riesce, la sfida è lì. Si gioca su quel campo.
Quando ho creato lo spazio di incontro per questo nostro piccolo gruppo sussurrante (qui la memoria bergmaniana vien su da sola, inevitabilmente), nel dirsi come esprimere in Alice l’esperienza pandemica nel dire, mentre è ancora del tutto presente nel sentire, ognuna è stata libera di scegliere la forma che sentiva propria, ed adeguata a questo spazio.
È nato così questo libro, che fra testi e immagini e collage ha posizionato in tre archi temporali i vissuti e tutto quello che siamo state in grado di elaborare fra noi per raccontare il passaggio dallo smarrimento allo stupore, e andare avanti.
È un piccolo contributo alla ricerca di senso che tutti viviamo, con la speranza che sia anche una risorsa per riconoscersi e ritrovarsi, o per pensare, come avrebbe detto Gordon Lawrence, il non (ancora) pensato.
Moltissimo ci sarebbe da aggiungere perché davvero questo ex-perire ha generato evidenze, ha sollevato la pelle delle cose e lasciato aperte ferite, e ancora agisce. Il cambiamento di paradigma esistenziale ha provato i Paesi e le persone, ha costretto le comunità a un ripensamento. Ha sdoganato le forme più aspre di sordità alla ragione e ha reso disponibile lo spazio in cui pensare diventa non più procrastinabile.

Se la casa brucia, anche la Terra sta bruciando. Dobbiamo chiederci come disperderne le ceneri o fermare l’incendio. Dobbiamo stupire noi stessi con un amore nuovo.
Ringrazio qui le autrici che si sono rese disponibili a narrare la loro Ora di Alice, un po’ alla cieca, disposte ad affidarsi a questa piccola ma coesa comunità inconfessabile. Ascolterete le nostre voci e vedrete con i nostri occhi attraverso tre sezioni: Nel buco, Nel rogo e nelle Estroversioni in doppia esposizione. Infine, nell’incontro con un possibile percorso di sintesi a più voci.
Siamo state sei donne affidate a una domanda, e la domanda era di scendere insieme nel buio di Alice senza sapere come saremmo risalite. Il buco di Alice è stata l’esperienza del pensare e ripensarsi nell’evento che accade, il rogo è stata la presa d’atto del sentimento di perdita e distruzione, le estroversioni il tentativo di vedersi, oggi, oltre la soglia di casa. Il libro è l’offerta di provare a fare con noi questo viaggio, e di uscirne, almeno per ora, con una doppia esposizione allo stupore.
Grazie a Rosamaria Caputi, Maria Grazia D’Avino, Barbara Giuliani, Silvia Longo, Silvia Maria Molesini e a me stessa per esserci concesse questo viaggio.
Grazie a Cinzia Greco per aver impersonato, senza saperlo, Alice, nelle mie foto.
Dedico questo lavoro a Gianni Celati da cui ho imparato, negli anni, a far posto allo stupore
(Nerina Garofalo – gennaio 2022)

Infine

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