Born To Be Online

S’è levata la nebbia

di Cinzia A.T.

Dedicato alle anonime vittime del violence-virus che nella reclusione forzata si moltiplica. Nel silenzio della solitudine.

S’è levata la nebbia

Era d’oro tutto quanto, mentre la foschia notturna veniva ingoiata dal tepore del mattino lungo il tappeto d’erba che gattonava, snodandosi irregolare sulla collina, al soffio di un’aria gentile. Calabroni lucidi incrinavano, a tratti, la quiete, fiondandosi sui fiori selvatici che s’accendevano al sole.
Lea si fermò accanto allo stagno e, accoccolata sulla riva, passò sull’acqua setosa i polpastrelli che ne arricciarono la superficie di vetro. Sulla riva opposta, una gialla matassa di bocche di leone sembrava osservare, con occhi felini, quel gioco infantile.
Il sentiero di terra battuta che Lea iniziò a percorrere era lucido e liscio come un nastro, a quell’ora, ancora irrigidito e compattato dal fresco della notte. Che splendida giornata! Mai la campagna le era apparsa così ricca.
Si incamminò su per la collina, canticchiando la canzone allegra che sua madre era solita intonare, mentre appendeva bianche lenzuola sulle corde tese tra i piccoli alberi da frutta, nell’orto dietro la casa.
La salita era lunga lunga. Lea si fermò per voltarsi indietro, e abbracciò con lo sguardo la vallata che si stendeva laggiù, grande come il mare. Con le mani ad imbuto intorno alla bocca gridò “Ehiii! Ehiii! Ehiiii!”, come faceva ogni volta che era sola in grandi spazi aperti. Si divertiva a sentire l’acuto allargarsi nell’aria.
“Ehiii! Ehiii!”. Risvegliato dalle vibrazioni della sua voce, un merlo emerse dal verde e si innalzò nell’azzurro.
Era quasi in cima Lea; non si sentiva stanca, anzi le pareva di calzare scarpe vaporose che quasi la tenevano sollevata dal suolo e le spingevano lievi i passi.
Amava da sempre quel posto; ci andava ogni volta che poteva e oggi si sentiva in così profonda simbiosi con la natura, che quasi non avrebbe saputo dire dove era il confine tra il suo corpo e l’erba; dove finivano le sue dita dei piedi che si affondavano deliziate nelle fresche pratoline e dove cominciavano i petali dei fiori.
Altri pochi metri e finalmente, in cima! Un respiro profondo la riempì delle fragranze pulite e sottili di quel luogo incantato.
Il cinguettio dagli alberi si blocca d’improvviso. Voci umane spezzano il silenzio. Sono suoni sussurrati di donna, suoni rochi di uomo. Lea non sa perché la colpiscano sgradevolmente allo stomaco. Avanza un altro po’ e intravede due sagome, dietro un’alta siepe pesante di more.
La donna piange, le braccia sollevate a scudo del viso, l’uomo sibila insulti vincendo con pesanti schiaffi la patetica barriera difensiva. Poi le torce un braccio e le sferra un pugno.
A Lea sembra di percepire un crack d’ossa, ma forse è la crudezza della scena a suggestionarla.
Le sensazioni così piene di delizia di una giornata di fine estate si spezzano, si fanno polvere, maciullate sotto il peso di tanta violenza.
Sente forte l’impulso di aiutare quella creatura indifesa. Si infiamma d’ira e guarda intorno alla ricerca di un ramo pesante, per mettere fine a quell’orrore. Invece resta bloccata dal terrore ; prova ad urlare, ma la voce le implode dentro, si incolla nella bocca. Ha un sapore acido.
Un ultimo colpo. Ancora rumore d’ossa che si spezzano? Lea non lo sa; non sa più nulla ormai. E’ come se il pensiero le si fosse impigliato nella rete di insopportabili emozioni .
Poi il silenzio. Vede la donna accasciarsi, muta, nell’erba. Vede anche lui, il volto arrossato, gli occhi malignamente socchiusi, che, con un accenno di trionfo sulle labbra, lancia un ultimo sguardo pieno di disprezzo all’esile corpo, ormai inerte. Si mette le mani in tasca e inarca la schiena guardando l’orizzonte, con la postura di un attore che, dopo l’ultima battuta del dramma, aspetta l’applauso del pubblico, impettito dietro le quinte.
Lea , ancora imbambolata, lo vede allontanarsi con passo deciso e poi sbiadire nel sentiero tra gli alberi che squarcia il colle .
Trema qualche ramo del folto albero in cima alla collina, uccelli e scoiattoli riprendono a muoversi, mentre nel denso fogliame si impigliano pigre le lunghe dita dell’ultimo sole.
Tutto è tornato come prima. L’erba fruscia, lievemente scossa da code di lucertole alla ricerca di una tana per la notte. Il vento leggero odora di terra asciutta e i cespugli di rose selvatiche accolgono gli ultimi petulanti ronzii della giornata.
Anche Lea ricomincia a sentirsi scorrere dentro la vita. Corre verso la vittima inerme.
Le si accovaccia accanto. Dal volto tumefatto e mezzo coperto da lunghi capelli scuri, un rivolo di sangue scende rosso, alla sbiadita luce che piove da ovest, e riga una grande pietra, bianca e tonda come la luna.
Un rombo d’ aeroplano dà voce all’ultimo pezzo di cielo non ancora oscurato dalla fine del giorno.
Lea allunga lentamente la mano per scoprire quel viso e liberarlo dall’insulto delle ciocche appiccicose di sangue. Come per spostare l’orlo di una tenda che, appesa al vetro, offusca la visuale, prende tra le dita il ciuffo castano che s’è addensato sugli occhi.
E’ lento il suo movimento; forse la paura non è del tutto svanita o forse Lea vuole imprimere a quel gesto qualcosa di sacro. Vuole, con mistica calma, liberare quell’anima che, forse, ancora giace nascosta e spaventata nell’abisso del cuore che ha smesso di battere.
Solo un piccolo nastro di sole dà colore adesso a quelle labbra esangui, al mento un po’ abbassato nel collo, agli occhi aperti su bande purpuree di un cielo lontano.
Lea è attonita. Un senso di vertigine la confonde mentre riconosce quel viso .
Sgomenta osserva se stessa, stesa lì, ammazzata.
Tutto intorno a lei, nell’erba, sono sparsi brandelli di passato, amori, dolori, emozioni. L’ultimo su cui Lea posa lo sguardo è un pezzo di orto con lenzuola stese tra piccoli alberi da frutta.
E’ l’imbrunire. Alberi e cespugli svaniscono muti, abbracciati da spirali di vapore che tra poco, al chiarore della luna, sembreranno fantasmi.

Exit mobile version